Crisi e possibile rinascita del design – 2

Nella natura umana non si trovano mai qualità egregie senza che, contemporaneamente, la degradazione delle stesse, attraverso una infinita serie di modifiche negative, possa portarle all’estrema imperfezione.”
Lo ha detto Kant, ma oggi, a pensarci, anche il buon senso. E però, per una sorta di strano accidente ottundente, ciclicamente pare che ce se ne dimentichi. Accade pertanto che un determinato sapere o potere specialistico, che pure tanto ha contribuito al bene comune, andando oltre il segno e perdendo il riferimento alla totalità, finisca per procurare danni di tale entità da indurre a chiedersi, esagerando, se non sarebbe stato meglio non fosse mai esistito. E ciò accade nel “teorico” ed abbiamo il vacuo estetismo o la frigida erudizione che non è già cultura, e accade nel “pratico” ed abbiamo il freddo e rigido meccanicismo magari economicista.

Il riferimento in questo caso è al sistema di produzione industriale.
Chi seriamente lavora sa bene degli enormi vantaggi derivanti dall’organizzazione del lavoro in termini seriali, meccanizzato o manuale che sia. Ciò però comporta specializzazioni e investimenti adeguati, e dunque la progettazione del ritorno economico, quantomeno delle spese (punto di pareggio). Ora, mettendo provvisoriamente a parte l’avidità di guadagno, in caso di errore in quel progetto, per il recupero dei costi e salvaguardare i posti di lavoro ecc. non rimane che l’arma della vendita “forzata” a mezzo di tecniche marketing ormai sofisticatissime. Con il bel risultato, che so, che per nutrire la speranza di far crescere due peli in più sul capo di qualcuno che ne ha quattro, il “sistema” farà sì da far sentire un povero disgraziato chi ne ha meno di cinque.
L’industria è dunque il male? No, in assoluto. Come in assoluto non lo è stato il perfezionamento tecnico della fissione nucleare.

Venendo ora al design, la cosa si presenta un tantino più complicata. Infatti, sia per la giovane età di detta disciplina, che per la velocità di trasformazione del contesto in cui interagisce, un adeguato pensiero critico non ha ancora avuto modo di svilupparsi, con la conseguenza che quando si dice design non si sa bene di cosa si stia parlando. Nulla di nuovo, si dirà, poiché, nonostante millenni di storia, lo stesso imbarazzo lo si sperimenta quando invitati a definire l’arte o l’architettura.
Per parte nostra, da architetti-produttori e non da critici, e nella scia dei Maestri del movimento moderno, non esitiamo ad assimilare il design all’architettura. E definiamo l’architettura/design come quella attività che, in occasione di una necessità utilitaria, dà forma e concretizza questa in uno con il bisogno esistenziale di conoscenza, trasferendo nella pratica realtà storica visioni di nuovi mondi immaginari. In altri termini, l’architettura/design come interfaccia tra il fantastico ed il reale. E applicando dunque anche al design quella articolazione classificatoria di matrice crociana data per l’architettura e cioè di poesia/architettonica, letteratura/architettonica ed edilizia si avrà conseguentemente un design/poesia, design/letteratura e oggetto d’uso.
Ora, date queste premesse, è mai possibile immaginare che una disciplina nata al servizio dell’universale umano, possa sottomettersi, per comprensibili ragioni di continuità operativa, ai bisogni di una sola classe, sia pure benemerita per aver fornito quanto di utile in un determinato tempo ? Ancora: l’ottundimento delle coscienze derivante dal consumismo del “sapere”, sol perché non facilmente e immediatamente misurabile ci deve sembrare meno grave di altre conseguenze derivanti dal consumismo, che so, di medicinali ?
Grandi e angosciosi dilemmi.

E dunque il design? Il design, come la poesia, libero per definizione e al servizio solo della propria coscienza che è la coscienza dell’umanità, non è nato per dare occupazione a quanti attorno ad esso impegnati (così come la scienza medica non è nata per dare occupazione agli ospedalieri e alle industrie farmaceutiche), bensì per aiutare l’umanità a prendere coscienza di sé nel mondo e contribuire a che la vita possa esser vissuta con minor sofferenza se non con più felicità. E poiché la vita, vichianamente, sfugge alla comprensione razionale dell’’uomo, perché non l’ha fatta lui, a lei ci si può accostare solo con la passione e la dedizione dell’amore.
Una rinascita del design allora, crediamo sia possibile solo a condizione che si sappia procedere con “amore, arte e scienza”, e per tentativi, sempre pronti cioè a rimettersi in discussione.
Esattamente l’opposto di cui ha bisogno l’industria per innervare la sua operatività : ragionevole stabilità dei consumi.
Come conciliare allora, se è conciliabile, questa contraddizione? Anche qua, con il lavoro, e poi con il lavoro e tanto autentico amore, non solo per quel che può rendere, quanto invece per il piacere che può dare nel farci sentire partecipi alla creazione, produzione e diffusione di opere di bellezza e di verità.

Troppo? Indubbiamente sì, per chi non ne è innamorato. E’ tuttavia appena il caso di ricordare che il tanto decantato glorioso design italiano è nato nel milanese negli anni cinquanta per lo più in anguste botteghe e di notte, ad opera di tanti desideranti piccoli Brambilla e architetti e artisti che non disdegnavano di sporcarsi le mani.
Poi è cresciuto, ed è cresciuto ancora, e via via il pur legittimo piacere del rendimento è andato oltre il segno, (fino a rimanerne unico, dicono i maligni) in forza del quale il design si è prodotto in mirabolanti e autoreferenziali vetrine esibizioniste ossequiando e inibendo sempre più l’ormai esausto e rimbambito mercato.
E torniamo a Kant.

(pp) Settembre 2009

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